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CONSIGLIO COMUNALE IN RICORDO DI MARCO BIAGI, L'INTERVENTO DEL PROFESSOR LUIGI MONTUSCHI


Si trasmette il testo dell'intervento del professor Luigi Montuschi, durante del Consiglio comunale straordinario dedicato al ricordo di Marco Biagi, nel X anniversario della sua uccisione.

"Ho conosciuto Marco, quando era ancora studente, lav...

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Si trasmette il testo dell'intervento del professor Luigi Montuschi, durante del Consiglio comunale straordinario dedicato al ricordo di Marco Biagi, nel X anniversario della sua uccisione.

"Ho conosciuto Marco, quando era ancora studente, lavorava nella redazione della Rivista “Quale giustizia” e si occupava delle prime applicazioni giurisprudenziali dello statuto dei lavoratori: erano gli inizi degli anni ’70. Marco si è laureato a ventidue anni nel 1972 e ha iniziato a collaborare con me, essendo risultato vincitore di una borsa di perfezionamento presso l’Università di Pisa, dove allora insegnavo alla Facoltà di Economia. Rientrati entrambi a Bologna nel 1974, Marco iniziava la propria rapida carriera accademica che lo ha visto nel 1984 vincitore di concorso e poi chiamato all’Università di Modena e Reggio per insegnare il diritto sindacale italiano e comparato. Marco parlava l’inglese in maniera fluente ed elegante e per questa ragione ha insegnato sia al Dickinson College, che all’Università John Hopkins, iniziando a maturare le prime esperienze comparatistiche in relazione alle quali ha ricevuto importanti incarichi e riconoscimenti anche istituzionali in ambito europeo. Marco è stato membro della Fondazione di Dublino per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, in rappresentanza del Governo italiano; consigliere dei Ministri Bassolino e Treu e, da ultimo, del Ministro Maroni. E’ stato anche consigliere dell’allora Presidente della Commissione europea Romano Prodi.
Mi fermo qui per non tediare l’uditorio, ma l’elenco degli incarichi pubblici di alto profilo e prestigio ricoperti da Marco è lunghissimo; sono testimonianze significative della presenza in Italia e in Europa di questo straordinario e versatile studioso. Quando ho conosciuto Marco, allora ventenne, mi ha colpito la sua serietà e determinazione; talchè una volta scherzosamente gli chiesi: “Marco, ma non ridi mai?”. La ragione è che Marco prendeva tutto terribilmente sul serio: era così diverso dagli studenti che avevo conosciuto a Bologna e a Pisa.
Non vorrei però essere frainteso: Marco sapeva ridere, amava la vita e aveva un senso spiccato dell’umorismo e stava bene in compagnia dei suoi colleghi specie stranieri, partecipando, anche rumorosamente alle occasioni conviviali. Non era un taciturno: semplicemente sul lavoro era sempre concentrato al massimo, non divagava ed era uno studioso davvero esemplare, meticoloso e ostinato fino alla pignoleria, come il suo cursus ricco di onori e riconoscimenti ha dimostrato. Il rapporto di collaborazione con Marco è stato intenso e fecondo, specie nel primo periodo, quello iniziale della sua formazione come studioso. Abbiamo passato tante ore insieme, specie a Pisa, a dialogare, a confrontarci, a volte anche in maniera accesa e vivace, alla ricerca di una soluzione sostenibile ai mille interrogativi che affollavano la mente. Il dialogo continuava poi con gli studenti ed era un’occasione di crescita per tutti: un mio ex-studente abruzzese che ha ormai i capelli bianchi, avendo frequentato la Facoltà bolognese alla metà degli anni ’70, pochi giorni dopo la tragica scomparsa di Marco, mi ha scritto una bellissima lettera per ricordare quei momenti sereni ed intensi, quella libera e socratica palestra di idee nella quale tutti, dai più giovani ai più esperti, erano sollecitati a dialogare e a confrontarsi, alla ricerca di una soluzione ai vari problemi giuridici che fosse corretta ed accettabile.
Rivendico, infine, un piccolissimo merito: quello di aver indirizzato Marco, favorendo le sue naturali inclinazioni, agli studi comparatistici, in un’epoca nella quale l’attenzione degli studiosi italiani per l’Europa e il diritto comunitario (e non solo) non era particolarmente intensa, fatta eccezione per Federico Mancini e Gino Giugni. Quella scelta che si può collocare intorno ai primi anni ’80, è stata decisiva per il futuro di Marco, che si è affermato ben presto in Europa e non solo in Italia, come uno dei più accreditati comparatisti. La comparazione per Marco ha rappresentato uno strumento metodologico e la chiave di volta utilizzata per ripensare e costruire un modello innovativo che potesse favorire la modernizzazione del diritto del lavoro italiano e la competitività, temi a lui particolarmente cari. A questo proposito può dirsi che Marco è stato un vero precursore: ha colto prima di ogni altro giurista ed economista italiano, il ruolo che l’Europa e il diritto comunitario avrebbe svolto negli anni, influenzando e condizionando sia lo sviluppo della nostra economia, sia il futuro del diritto del lavoro.
Marco ha visto giusto, mentre i giuristi italiani facevano fatica ad abbandonare i vecchi e radicati schemi ed erano restii a confrontarsi con e nell’Europa.
Non è forse un caso che la crisi economica si sia abbattuta a distanza di anni sulle nostre istituzioni trovandoci impreparati e l’Europa abbia imposto, come indifferibile, l’esigenza di metter mano ad una severa riforma del mercato del lavoro. Tutto ciò era in qualche modo prevedibile e Marco, giurista europeo sensibile e curioso, lo aveva avvertito prima di ogni altro e dal suo osservatorio si era fatto promotore e protagonista del cambiamento, convinto che occorreva allineare il diritto italiano a quello europeo, superando immobilismi e inveterati pregiudizi, anche (ma non solo) ideologici. Marco era soprattutto un giurista pragmatico e non si faceva imbrigliare o costringere entro gli schemi della dogmatica: dote essenziale per un riformista senza complessi qual era. La tensione etica che lo animava, lo spingeva sino a “superare le colonne d’Ercole del tradizionale diritto del lavoro” come ebbe a scrivere nel 2002, aggiungendo con un pizzico di malizia ed ironia, che “forse molti non se ne sono neppure accorti”. Proprio negli anni ’90 si sono moltiplicati gli studi di Marco su quella che chiamava la “complessità” del mercato del lavoro: penso ai saggi del 1992 e del 1996 (alludo, in particolare, al volume sul “diritto dei disoccupati”); sono una testimonianza esemplare della creatività e progettualità di Marco, studioso aperto all’innovazione e al cambiamento in chiave europea. Per altro verso le opere di Marco, comprese le pubblicazioni minori, non contenevano certo l’elogio della precarietà, più o meno deregolata, perché Marco, come testimonia la sua ricca produzione, è sempre stato dalla parte dei giovani e dei più deboli, a favore dei quali ha speso le migliori energie intellettuali per dare a tutti una speranza di vita e di lavoro a tutela della dignità della persona.
La scommessa e la mission di Marco era garantire la qualità del lavoro, non la precarietà e l’incertezza sul presente e sul futuro. In particolare, Marco ha combattuto il lavoro nero ed irregolare, fonte di iniquità sociali e di una precarietà insidiosa e nascosta, eticamente prima che giuridicamente censurabile. Marco ha lasciato dietro di sé un’eredità importante, un patrimonio di idee e di progetti che la Fondazione modenese intitolata al suo nome ha l’arduo compito di conservare e soprattutto promuovere.
A distanza di dieci anni da quella terribile sera del 19 marzo 2002, non solo è vivo e presente il ricordo di Marco, non solo è impresso nella memoria il suo volto di eterno ragazzo, ma il sogno di modernizzare e cambiare il diritto del lavoro italiano, adeguandolo al modello europeo è ancora da realizzare compiutamente ed è un impegno morale per i ricercatori della Fondazione che facevano parte della sua “scuola” modenese (la famosa “bottega artigiana”) e per l’intera comunità scientifica italiana.
La prima riforma del mercato del lavoro del settembre 2003, è stata varata a distanza di oltre un anno dalla morte di Marco, così come il testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro ha concretizzato qualche anno dopo, riversandoli in un vero e proprio codice, gli spunti e le intuizioni innovative di Marco.
Sono riforme importanti (e non sono le sole) che si sono ispirate alle sue idee e alla sua straordinaria, esuberante progettualità.
Quanto alle singole soluzioni tecniche, la paternità è e rimane del legislatore. Il “modello” cui si ispirava Marco, a volte strumentalizzato senza troppi riguardi, è ancora oggi attuale: maggior impegno e tutele del lavoratore nel mercato, specie se è debole o destinato all’esclusione sociale, un diritto del lavoro più giusto e moderno, come si suol dire “a misura” del lavoratore, riforme calibrate, europee, rispettose delle regole comunitarie e della costituzione. Progetti aperti alla riflessione, senza complessi, né viziati da apriorismi ideologici, innovativi rispetto alla tradizione italiana caratterizzata da un sovraccarico di regole rigide e formalismi, incapace di uscire da schemi preconfezionati o di immaginare una riforma che non fosse frammentaria o episodica.
Il sogno di Marco era un diritto “nuovo” che non sottraesse tutele, né smantellasse lo statuto dei diritti dei lavoratori, senza sostituire alle vecchie regole, altre non meno protettive e tutelanti gli interessi dei lavoratori.
Così Marco progettava uno “statuto” dei lavori per andare oltre gli schemi e scoprire che il lavoro non è solo quello autonomo o subordinato già regolato. Questo è il segreto che spiega l’attualità e modernità del pensiero di Marco e, ad un tempo, è l’eredità che ci ha lasciato affinché il filo del ricordo per quello che ha costruito non si spezzi ed, anzi, favorisca e consolidi il cambiamento.
Un esempio per tutti: Marco si è occupato negli ultimi tempi della sua vita operosa, della riforma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Com’è noto, proprio in questi giorni, il Governo sta intervenendo, dopo un tormentato confronto con le parti sociali ancora non concluso, per modificare questa norma-simbolo, senza peraltro prevedere - come aveva auspicato Marco richiamando l’esperienza dei paesi scandinavi – un sostegno economico adeguato e duraturo nel tempo per rendere meno penosa e drammatica l’uscita del lavoratore dal circuito attivo e il parcheggio nel limbo dei disoccupati.
Marco, eroe e martire dei nostri tempi come Massimo D’Antona, ha pagato per le sue idee, per il coraggio e la risolutezza (al limite dell’ostinazione) con le quali le ha sostenute dentro e fuori della comunità scientifica e nelle sedi istituzionali pubbliche e private che frequentava, senza arretrare di un passo nella difesa dei suoi progetti, confidando forse un po’ ingenuamente sulla forza della ragione.
Pensava ad una riforma “globale”, ispirata al modello “europeo”, si batteva per un cambiamento che era osteggiato e temuto da chi lo ha barbaramente colpito davanti al portone di casa, mentre aveva le chiavi in mano per entrare. Un gesto familiare e abituale finito nel sangue.
Marco, non c’è dubbio, era un bersaglio sin troppo facile: le sue abitudini di vita erano note, prevedibili, sempre quelle. In bici sino alla stazione di Bologna di primo mattino quando doveva recarsi a Modena, e, al ritorno verso le ore 20, percorso inverso. Stesso orario, stesso treno. In quei viaggi, specie nell’ultimo tratto, attraverso le vie del centro storico di Bologna e del ghetto ebraico, Marco era solo senza la protezione di una “scorta” incredibilmente tolta e poi negata; l’allievo bolognese che a volte si accompagnava a lui nel viaggio di ritorno, si congedava alla stazione. E così è accaduto quella sera del 19 marzo 2002.
Poi Marco saliva sulla bici che è diventata il simbolo e il marchio della Fondazione intitolata al suo nome, per tornare a casa: quella sera ad attenderlo non c’era solo l’adorata famiglia, ma nascosti dietro le colonne del porticato c’erano i brigatisti spietati e vili, che lo hanno ucciso senza pietà, pensando così di spegnere le idee, di cancellare il suo pensiero e il suo ricordo, di archiviare la pratica di un servitore dello Stato. Un tragico errore!! L’esecrando obiettivo non è stato per fortuna raggiunto. Marco, a distanza di dieci anni da quella tiepida sera che annunciava la primavera, è ancora presente nell’amore della famiglia, nel ricordo degli amici e colleghi, nelle istituzioni pubbliche e private che ha frequentato elargendo i tesori della sua intelligenza e progettualità. Perché le idee non muoiono né alla sera, né all’alba, quando appartengono al patrimonio condiviso da un’intera comunità sociale, politica e scientifica, in una parola, da un intero Paese."

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Ultimo aggiornamento

14/03/2025, 12:14
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